Monte Hellman: dal “Cielo in una stanza” al “Deserto interiore”
È assodato che il western sia il genere per eccellenza della cultura statunitense, anzi, di tutta quella americana. Questo perché l’America, essendo storicamente la nascita di nazioni fatte da colonialismo ed espansionismo, in special modo gli USA, ne ha fatto una giustificazione fatale. Ma non è tutto. Infatti se il carattere colonialista ed espansionista siano ormai un tratto genetico di questo genere per la loro componente fattuale ed ideologica, lo sono allo stesso modo il carattere
moralistico, antropologico e psicologico che, in modo molto più pesato, sono presenti nel genere principe della celebrazione del paesaggio.
moralistico, antropologico e psicologico che, in modo molto più pesato, sono presenti nel genere principe della celebrazione del paesaggio.
L’etimologia della parola western è certamente rintracciabile attraverso un riferimento topologico, ma è pur vero che il termine è diventato a sua volta etimologia e simbolo della stessa mentalità occidentale, grazie alla riflessione umanistica che ne è stata fatta ad un certo punto del suo sviluppo cinematografico e storiografico. Attraverso il 900, infatti, il western indaga dapprima più propriamente sul carattere spaziale: vero elemento sempre determinante del genere per il suo accento che pone sul selvaggio, sull’inciviltà, sulla grandiosità della natura, sul caos, poi, date circostanze sociali, si fa carico di idealiroosveltiani, fa presa di coscienza della situazione mondiale (in particolare della situazione bellica europea) e si definisce come buona giustiziera, portatrice di valori puritani in grado di addomesticare quel selvaggio; infine si fa un bell’esame di coscienza e mette in tavola tutte le carte cercando di capire, come fa una veggente o una cartomante, se quel personaggio con la pistola e gli speroni sia il bene o il male.
È grosso modo questo il processo evolutivo del genere western, ma le sfumature e le circostanze sono molteplici. Parto dal cinema hollywoodiano classico per poter meglio inquadrare i cambiamenti e la rilevanza espressiva-produttiva della figura di un “cineasta con sordina” come Monte Hellman.
Sappiamo che in circa un trentennio, dall’introduzione del sonoro nel film, il cinema (Hollywood), si è impegnato a esprimere al meglio, nei propri prodotti industriali, la componente narrativa di una storia, per permettere una chiara lettura visiva e semantica del film stesso. È in questo periodo che si delineano i generi, lo star system e lo studio system. Una vera e organizzatissima fabbrica di cose: miti e illusioni. Illusioni non intese come fantasticherie irrealizzabili ma al contrario, fatte passare per eventi realistici. Ed è così che si riusciva a dare l’impressione di trovarsi in mezzo ad una mischia tra gangster, o coinvolti in una disputa familiare, o meglio ancora in altre parti del mondo: trincee di guerra, isole esotiche, territori selvaggi ecc.; praticamente un sogno (o incubo) ad occhi aperti, ma reale, coinvolgente. Ecco palese la volontà di costruire, collezionare, imprigionare tutta la realtà in quattro mura.
Da ciò evince la rigidità con cui bisognava realizzare un prodotto filmico. Un prodotto che a volte è diventato prodotto artistico grazie solo al racconto peculiare o alla professionalità del regista di organizzare la grammatica imposta dal codice, creando sintassi lineari, comprensibili a tutti gli spettatori, ma che la maggior parte delle volte ha mietuto frustrazioni tra le creatività di molti professionisti del settore non permettendo loro alcuna personalizzazione nell’esecuzione del proprio lavoro. Ma nonostante la rigida imposizione del messaggio puritano che bisognava dare, alcuni registi come John Ford, Alfred Hitchcock, Orson Welles, Frank Capra e pochi altri, sono riusciti anche ad imprimere quel tocco unico che nessun professionista solo con l’osservanza cieca delle regole avrebbe potuto dare. Questi sono i più conosciuti, perché tra i primi, nel pieno dell’età dell’oro hollywoodiana, a riuscire ad accontentare il sistema e allo stesso tempo la propria creatività e ricerca espressiva, senza esser presi per ammutinati.
Ecco che spunta tra i tanti anche Roger Corman: produttore, regista, talent scout, tutto fare, del cinema serie B. Ma serie B significa “scadente” a confronto di qualcosa di più preciso, di più impegnato, di più alto rango, di più alto valore (economico?). Come può un addetto ai lavori di serie B essere in grado di realizzare qualcosa di artistico, di tecnicamente ben realizzato, di universalmente riconosciuto, di magniloquente? Beh, in questo caso più fortunato ce lo dice la sua carriera, che proprio quest’ultimo anno gli ha fatto ottenere l’Oscar, a riconoscimento del lungo percorso sviluppato (più di 50 anni di lavoro cinematografico), in altri casi: o non vi è nulla di interessante perché davvero i prodotti realizzati sono obsoleti e riciclati sotto tutti i punti di vista, oppure qualcosa c’è ma non tutti sanno vedere (o vogliono vedere) e quindi si resta praticamente nella nicchia. Come Hellman. Fortunatamente anche lui ha finalmente ricevuto riconoscimento con un bel Leone d’oro per la sua opera nel 2010. Ma per molto tempo non è stato quasi per niente considerato. Come mai?
Vedo interessante provare a rispondere con una frase che dice la ragazzina sulla staccionata di un suo celebre film, Strada a doppia corsia del 1971: “noi uomini ce la caviamo meglio no?, anche senza le ali!”, confrontandosi con degli insetti che sono molto curiosi, attraenti a quanto pare, interessanti perché hanno le ali, ma a che pro? Per godersi mezza giornata in aria e poi morire? E comunque saranno tutti uguali quegli insetti, non si distingueranno gli uni dagli altri, come se quello che svolazza oggi è come quello che è svolazzato 3 anni fa. Un uomo invece, seppur senza ali fisiche, può volare con altri mezzi, non solo tecnologici ma anche psicologici. Come sembra dirci anche lo slogan del suo ultimo film Road to Nowhere del 2010: Illusion is the first of all pleasure.
Ma forse tutto ciò è semplicemente il modo per criticare una scelta esagerata di questa via. A volte l’illusione è anche malefica, ambigua, truffaldina. È per questo che a un certo punto la Hollywood degli anni d’oro ha avuto una frenata, un rimorso di coscienza e il coraggio di affrontare anche la realtà reale.
Insomma, sembra che Hellman riesca a stare nel mezzo, quindi nel giusto secondo il proverbio. È questa una sua qualità.
Cresciuto proprio sotto l’egida e saggezza di Corman, Hellman capisce molte cose, tra le quali quella per cui non c’è bisogno di molti soldi per fare un buon film, o che il film non è solo un prodotto commerciale come una latta warholiana di Tomato Soup indistinguibile nella sua molteplicità esistenziale, ma opera di ingegno, riflessione personale, comunicazione, rielaborazione, sfida, unicità.
È rilevabile quindi una forte componente psicologica in Hellman nella realizzazione dei propri prodotti filmici. Una sorta di filosofo con lente di messa a fuoco e megafono alla mano. Personaggi rari ma sempre presenti nella storia del cinema, col peso di farsi carico di ideali minoritari ma forti, di sentimenti latenti ma presenti, di ombre piccole e nere ma perché date da luci di spiraglio e abbaglianti.
Hellman è uno di questi.
E il western non può che essere un campo fertile per una sua riflessione sull’identità umana.
Spunta finalmente la sua Sparatoria, che essendo del 1966 è portatrice di quel sentimento di turbamento che negli anni sessanta si stava spandendo tra i ceti sociali e politici, tra le diverse generazioni e in generale un po’ tra tutti, che sarebbe uscito ben allo scoperto nel turbolento Sessantotto. Il film è atipico nel genere e nel prodotto complessivo. Il bene e il male non sono nello schieramento dei personaggi nel racconto, ma nelle relazioni che si creano, nei sentimenti e nei rapporti psicologici. Uno studio umano sull’assurdità della vita, un po’ lynchano. Hellman, rielaborando il mito di Sisifo, mette in discussione l’identità di ciascuno e la logica della presenza nella vita. Si può notare quindi l’intelligenza nella messa in scena dell’intero film e del suo sviluppo. Il film è girato con un rapporto dell’immagine di 16:9, come tutti i film a noi contemporanei, ma a quel tempo caratteristico solo del western, per esaltarne la componente spaziale, come se fosse il personaggio principale. Ma la novità quindi dov’è? È nel fatto che questa ripresa panoramica è solo il contrappunto per l’indagine invece tutta in verticale fatta sull’evento raccontato. L’orizzontalità del paesaggio e del viaggio che i personaggi fanno è futile; non è carattere né di espansionismo né di superamento della frontiera selvaggia né di qualsiasi altra componente presente nei classici western di decenni addietro, dove, invece di un solo indiano defilato e superfluo, c’era il male da convertire. È invece luogo di un altro viaggio, quello interiore, una ricerca che, sia il minatore protagonista, in primis, fa di sé stesso, sia il resto degli attanti, volenti o nolenti, sono tenuti a fare. Tutto è generato da un peccato originale, con cui tutti devono fare i conti. Come anche Leland, un morto gratuito, il quale viene seppellito dall’amico Coley, che per giunta sbaglia a scrivergli non solo il nome e alcune parole dell’epitaffio, sgrammaticando (si mettono così in evidenza anche le differenze di accenti presenti nel West e quindi simbolicamente la confusione mentale logica), ma anche il mese della morte, e una volta informato di essere nel mese di marzo invece che in quello di aprile dalla donna misteriosa, decide comunque di non cambiarlo, tanto non gli importa nulla. Ecco che spunta in questa scenetta l’assurdità della vita e l’indifferenza, leitmotiv dell’opera, come ritroveremo anche più avanti nell’abbandono a sé stesso del povero vecchio in mezzo al deserto. Hellman, dicevamo, interpreta in qualche modo il saggio di Camus. Mi sembra curioso mettere in evidenza e a confronto un altro film più recente, ispirato anch’esso ad un’opera camussiana,Lo straniero. Il film è Il delitto Fitzgerald di Matthew Ryan Hoge, del 2003, il cui titolo originale è The United States of Leland. Sintomatico no? Come se la presenza del nome Leland (buffa coincidenza?) stia a ricordare che chi è stato, ed è, oggetto di indifferenza, a sua volta non può far altro che immergersi in essa per strappare la verità su sé stesso.
Involucro di questi leitmotiv è dunque l’identità, ripeto: la ricerca di sé stesso, del proprio doppio, di quell’altro io visto da un altro punto di vista.
Per approfondire questa ricerca, Hellman, gira parallelamente a La sparatoria un altro western: Le colline blu, titolo italiano di Ride in the Whirlwind.
Come spesso constatabile, il titolo è già significante-significato di un’idea, sia in quello italiano che in quello originale. Infatti nell’originale è segno della cavalcata nel turbinio dei sentimenti e dei dubbi, della riflessione e dello sconforto, mentre in quello italiano è segno dell’assurdo e dell’illusione, della propria speranza e libertà.
Se ne La sparatoria i personaggi erano ridotti all’osso, qui ce ne sono eccome e sembrano essere tutti sullo stesso piano, a simboleggiare lo stato esistenziale nel quale tutti ci troviamo: ladri, briganti, eroi, ubriaconi, sceriffi, lavoratori o indifferenti che siamo. Anche chi non ha colpa è perseguitato, e se non dovrebbe esserlo per un motivo, comunque ne sarebbe giustificato per un altro. Dei tre protagonisti iniziali, se ne salva uno, ma solo fisicamente. Nel senso che resta in vita. Ma cosa penserà d’ora in avanti? Farà come se nulla fosse successo? Dimenticherà le persone che ha incontrato sul suo cammino solo perché è riuscito ad arrivare sulle colline blu? Ma sicuri che quelle colline siano la verità? La giustizia? Come nel suo complementare, anche questo film lascia allo spettatore la propria interpretazione, il proprio esame di coscienza, la scelta della propria verità. Nel corso del film, comunque, succedono molte cose interessanti che arricchiscono e assaltano lo stato psicologico di protagonisti e spettatori. I bravi son costretti a farsi scudo dietro una umile e serena famigliola della zona, tirando anch’essi in ballo. Qui trovano momento di calma, casache diventa non-luogo, esile momento, buono solo a far pensare a uno dei due di essere stanco di quella vita, che non trova logica se non nel godersi l’hic et nunc di una partita a dama. E se per un attimo sembrano avere tutti un sentire comune, visto la gentilezza e la mancanza di paura da parte soprattutto delle donne di casa, poi si scopre il rivoltarsi contro di chi aveva comunque intuito che davvero potessero non essere implicati negli affari dello sceriffo, facendoci scappare anche qui il morto di favore. Prima di approdare alla casa mulino bianco, i due fuggitivi, privati del proprio amico, primo a soccombere al triste destino, si erano trovati a fermarsi già una volta lungo il proprio cammino, che da riposo era diventato anche qui riflessione: da stanchi morti per l’affannosa corsa, avevano capito che era sacrificio giusto dover ripartire, per non ritrovarsi morti stanchi.
Questi due film anomali ma portatori di un messaggio personale di Hellman, sono anche esempio di una nuova coscienza che negli anni sessanta stava primeggiando in confronto alla ormai sempre più spenta fiamma della mitica Hollywood dorata. Una Hollywood finalmente smascherata come La Vergine di cera, nonché The terror corman-coppola-nicholson-hill-hellmiano del 1963, dove una speranza fresca e innamorata non è altri che una delusione, una falsità, una paura, un tradimento, sentimenti analoghi all’imminente evento che sarebbe accaduto di lì a qualche mese con l’assassinio del presidente John Fitzgerald Kennedy.
Insomma bisognava riportare un po’ l’ordine, anche se non si sapeva bene quale fosse questo nuovo ordine, ma forse il movimento fino a quel momento era stato troppo western e bisognava un po’ ri-centralizzarsi. Ecco, forse, perché non è un caso che i due giovani di Strada a doppia corsia vadano a est, come dicono alla ragazza che li accompagna e che confessa loro di non esserci mai stata. Ed ecco che probabilmente è indicativo che di quella strada a doppia corsia finalmente si percorra quella meno battuta.
E improvvisamente tu mi appari – per dirla con le parole di una canzone romanticamente filoamericana e umanamente antibellica di Edoardo Bennato – mi appari ora, nelle vesti inconfondibili di una signora, con l’aria di chi parla parla parla e a volte strilla […] Stop, Stop America.
Sono gli anni della contestazione: contro la guerra, per i diritti civili, di rivendicazioni studentesche, ecc. L’America da qui perde la sua aura disillusa e da ragazzina sempre attenta a non calpestare i fiori, inizia a tingersi i capelli con la camomilla. Le guerre calde e fredde, gli scandali, i problemi sociali e politici e quant’altro, indeboliscono sempre più questa signora America che ci ha regalato il rock e la fantasia. È ora di reagire! Nuovi sentimenti di fiducia, speranza e passione tornano a primeggiare a confronto della paura e disperazione. Tornano Amore, Piombo e Furore nel 1978.
L’amore è sentimento onnipresente, motore di tutto il resto; nel bene o nel male prevale lui, scatenando spesso raffiche di piombo, sotto l’onda incontrollata del furore.
Non è che ci sia la certezza delle cose, la fermezza immediata nelle scelte, ma finalmente, dei bivi sul cammino, se ci si accorge che una strada è sbagliata, si capisce di dover percorrere anche l’altra e non continuare a vagare nel torto e nell’ignoranza. China 9, Liberty 37. Ecco il bivio del film di Hellman (al quale nemmeno accreditano il film, segno forse più incisivo della querelle tra messaggio e messaggero) . La prima scelta è China 9, dove si incammina un bardo con la sua armonica, introducendo diegeticamente la musica che invece farà da soundtrack per tutto il film, come fosse un’allucinazione, una cantilena.
Se prima nel vortice si perseguitava chiunque senza lasciare scampo alla verità, al pentimento, alla misericordia, ora qui (con la consapevolezza, l’America, di essere un predicatore che razzola male) si arriva a concedere la seconda chance, seppur a proprio beneficio. Di nuovo il western si rivela qui un anti-western, un sur-western, uno spaghetti western. Dell’estremo West c’è il paesaggio scarno, desertico, selvaggio, ma non prevale a confronto delle relazioni psico-fisiche dei personaggi, dell’incertezza politica e legislativa, del contesto sociologico. L’eroe è un antieroe, e l’antieroe un eroe; insomma, non è così chiaro come un tempo chi abbia torto o ragione. Infatti la vicenda qui è molto da tragedia greca, mettendo in risalto lo stato psicologico di ciascun personaggio. Il cacciatore e la preda diventano amici, riconoscendosi entrambi lo stesso diritto alla vita, che è anche lo status finale dello scontro al quale sono arrivati rimettendoci delle vite innocenti. Ma tutti hanno avuto e hanno qualcosa da dire, per esprimere la propria mentalità, dal più infantile e rozzo fratello del ferroviere, alla fragile e sensibile donna galeotta. Quando mai la donna era stata così importante? Nel West valeva meno di un cavallo ma per l’America è la figura chiave della società. Già nei Quaranta e poi successivamente, il ruolo femminile aveva avuto una grande importanza e sviluppo concettuale. Nei due western, sopra citati, di Hellman, la donna è rappresentata in entrambi i modi: assoggettata, muta e prigioniera ne Le colline blu; reattiva, decisa e loquace nel suo mistero ne La sparatoria. Qui, infine, è ostentata la sua, seppur fragile, condizione preminente. Tra le prostitute: una sembra non valere nulla, tanto da poter essere sacrificata, mentre un’altra è la sola salvezza dell’uomo; la protagonista invece è un vero crogiolo di sentimenti contrastanti: l’infedeltà, l’amore, la passione, la tristezza, la noia, la gioia, il senso di colpa. Non può che essere la figura sintesidelle personalità degli altri due protagonisti.
Immersi ormai in un dichiarato deserto interiore, dove il male da addestrare non è la razza indigena, ma i propri miraggi, le proprie illusioni, i propri viaggi coscienziosi, la propria personalità e identità, per riuscire a dare un senso alla propria vita in relazione con la natura e le persone circostanti, l’uomo solitario e la ritrovata famigliola si avviano verso un nuovo futuro: Liberty 37.
Monte Hellman ci mostra con i suoi film come con pochi soldi e buone idee si può fare cinema; un cinema concettuale, sociologico, psicologico, interpretativo, ma avvincente per la presenza di colpi di scena e capovolgimenti di significati. Un film, per lui, non è esclusivamente un prodotto commerciale, e ciò risulta anche dalla sua filmografia eccelsa per qualità di opere e non per quantità. Significativo è anche la sua scelta di produrre un film come Le iene di Quentin Tarantino, a dimostrazione che bisogna dare la possibilità di esprimersi a chiunque, facendo venir fuori idee uniche e personali, così da contribuire alla nascita e sviluppo di mentalità creative, portatrici di testimoni che, generazioni dopo generazioni, ci si tramanda nella staffetta della vita.